Giugno è stato un mese di letture interessanti. Tra le tante, ho scoperto “The good enough job” di Simone Stolzoff (qui su Amazon, link NON sponsorizzato) ascoltando una puntata del podcast di Cal Newport.
Sono mesi che mi interrogo su questo tema, un tema molto dibattuto, specie in seguito alla pandemia.
Quando un lavoro è un “buon lavoro”? Quanto il nostro lavoro determina ciò che siamo? Quanto un datore di lavoro influenza il nostro appagamento sociale? Molto più semplicemente: quello che facciamo, il lavoro delle nostre mani identifica chi siamo?
La società del capitalismo ci ha insegnato che il successo della carriera è in fondo anche il nostro successo personale, portando all’estremo la massima “il lavoro nobilita l’uomo” o ancora la massima confuciana che cita “lavora su ciò che ami e non lavorerai un’ora in vita tua”. Salvo poi rendersi conto che ci perdiamo pezzi importanti della nostra vita, gli affetti, la salute psico-fisica, il divertimento e le passioni.
Fino a che punto il mondo del lavoro nel 2023 è in grado di alienarci e farci dimenticare chi siamo realmente?
L’autore cerca di rispondere a queste domande, prima di tutto rispondere a sé stesso, portando diversi esempi di persone apparentemente di successo e che poi si sono trovate davanti all’evidenza di una vita non pienamente vissuta.
Esperienze del genere ci interrogano: fino a che punto possiamo spingerci nella spirale capitalista senza perdere la nostra umanità?
La risposta non è uguale per tutti e non sempre esiste. Dipende da come siamo fatti, da ciò che ricerchiamo, da quanto le condizioni che ci circondano permettono correzioni alla frenetica vita del lavoratore della conoscenza medio.
Il libro di Stolzoff ispira il lettore a cercare una propria strada, una propria ricetta che possa rompere questo incantesimo e ci permetta di trovare il nostro equilibrio in un lavoro “giusto a sufficienza”. Che non significa non guardare alla carriera ma a guardarla da un punto di vista diverso.