Ultimamente sono nel pieno di una discussione tra parenti, amici e conoscenti del paesello, in merito alla dimensione del sociale. In un paese di 1100 abitanti (Bertonico, LO, non ne faccio mistero), non è semplice pensare a quella dimensione anche se tutti sanno abbinare alla faccia un nome, ci si da del tu, come in ogni paesino di provincia.
Provincia è la keyword di questa riflessione. Che cos’è oggi la provincia? Ci sono diverse considerazioni da fare e probabilmente quelle che elencherò non saranno nemmeno esaustive. Però ci provo.
Che cos’è la provincia oggi?
La provincia della bassa lombarda oggi è un luogo spolpato di risorse. Con l’industrializzazione e l’avvento forte del terziario, le campagne si sono svuotate a partire dagli anni ’60-’70; spesso frazioni “contadine”, un tempo più grandi dei paesi stessi, sono una distesa di rovine e di abbandono (che pure hanno un loro decadente fascino artistico, vi dirò) e vivere in provincia è una scelta sempre più difficile. Il lavoro è in città, si è in qualche modo costretti alla vita del pendolare che è dura e alienante per molti versi (e di questo parliamo dopo), si ha poco tempo da investire con la gente del posto e di conseguenza la vivacità sociale e culturale ne risente.
Dall’avvento del terziario, dicevo, l’attenzione e le risorse sono tutte rivolte ai grandi centri e alle città, che possono mettere in campo amministrazioni efficienti e professionali in grado di lavorare al fine di attirare ancora più denaro e risorse, in un gioco al massacro con la provincia, sempre più impoverita.
I paesini che ancora sono sede di municipio spesso devono “fare il pane” con ciò che hanno ovvero poco, in termini di capitale umano. Questo fatto banalmente riconducibile al vil denaro, si riflette brutalmente su tutta la vita di provincia.
Spesso non si ha a disposizione un presidio scolastico locale oppure, come nel caso del paese dove vivo, questo viene garantito a fronte di un enorme investimento rispetto a un misero bilancio comunale; e nonostante questo sia un grande servizio alle famiglie locali e sia un baluardo per il futuro delle giovani generazioni (perché parte tutto dalla scuola gente, non si scappa), crea solo una limitata attrattiva per il paesino di provincia.
Sì, si formeranno magari comitati genitori, si mette in piedi qualche iniziativa ambientale o di carattere culturale con la biblioteca locale legata alla scuola ma difficilmente una famiglia metterà radici in un paese solo per la presenza di una scuola.
Si vivacchia così, magari unendo alcune risorse con i comuni vicini (la polizia locale, la scuola, il servizio rifiuti), con una popolazione che invecchia molto a livello nazionale e spaventosamente di più nei paesini di provincia dove non passa settimana senza che un ottantenne decida che è il momento di passare a miglior vita. Ci si trascina di giornata in giornata, di anno in anno, con la nebbia padana alle volte a suggellare uno stato che è più mentale che reale. Insomma, non bastano panorami gradevoli, verde e tranquillità; la provincia probabilmente è davvero uno stato mentale… Oppure no?
I paesi dormitorio esistono davvero?
Prendo lo spunto da una interessante discussione nata su Mastodon collateralmente al mio post che ha generato questo pezzo sul blog e mi collego al paragrafo precedente. Definire la provincia e i suoi paesini come dormitori è in fondo sbagliato:
da amministratore di un piccolo paesino di provincia, poco più o poco meno di 2000 ab. a seconda del momento.
Peder (Livello Segreto)
Io credo che un luogo in generale muoia, quando muore l’impegno di chi ci abita.
Il posto dove abitavo è definito “paese dormitorio”, def. che non apprezzo e non condivido, perché c’è vita che scorre, dorme solo chi sente di concludere il proprio impegno con la società pagando le tasse e fottendosene della comunità.
(Anche se si, il problema è più complicato).
In fondo concordo con Peder. C’è vita che scorre. La mia percezione personale è che ci siano tante piccole realtà che animano la vita di provincia, una costellazione di piccoli eventi e iniziative che però stentano a far rumore. In un mondo fatto di reach, di cuoricini e di influencer, qui ci si muove in silenzio tra artisti di talento, bande musicali cittadine, piccole società sportive di successo e oratori di una volta che però piano piano stanno perdendo di mordente (ho messo qualche link molto locale e che conosco bene per dare un’idea).
Personalmente cerco di non tirarmi indietro facendo qualcosa per il territorio in cui vivo ma sono consapevole di quanto la vita del pendolare sia spietata e non posso non mettermi nei panni di molte persone che non trovano la forza per mettere ulteriori energie per il territorio.
Allora, che fare per cambiare il paradigma e ribaltare questo stato delle cose?
Si può inziare a smuovere qualcosa con iniziative “dal basso”, ma il contesto non favorisce troppo la cosa secondo me.
Paradossalmente se la pandemia ha ammazzato brutalmente le iniziative “locali” penso oggi ci sia spazio per provare a farle rinascere mostrando che c’è desiderio di far attività anche in provincia.
Ed (Livello Segreto)
La pandemia. Sì. Purtroppo, non ne siamo usciti migliori ma atomizzati, ancora più isolati e alienati se possibile, nonostante i proclami e le belle intenzioni. La pandemia c’entra eccome.
La mancata occasione della pandemia
Probabilmente non è bellissimo parlare di occasione in correlazione con una malattia che ne ha ammazzati a milioni, però il caso di Bertonico è piuttosto emblematico in quanto parte della cosiddetta “prima zona rossa” d’Italia con molti paesini e insieme alle città di Codogno e Casalpusterlengo.
La vita di quei due mesi non fu esattamente uno spasso, tra militari all’uscio (io avevo una camionetta dei bersaglieri a 20 m dalla mia camera da letto, per dirvi l’allegria), file al supermercato da Unione Sovietica, controlli e brutte notizie dagli ospedali e tra i vicini. Non mancavano momenti di sconforto e paura specie quando qualcuno di caro finiva in ospedale con quella che allora era una misteriosa malattia esotica e senza cura e sicuramente lavorare in casa con i bambini non fu esattamente una cosa semplice; rimettere a posto certi ritmi e garantire copertura e attenzione alle esigenze famigliari e lavorative fu un lavoro pesante e fatto senza alcun supporto ma riuscimmo comunque a sistemare le cose e a far andare avanti la barca; almeno noi, impiegati da ufficio con uno stipendio fisso e solo raramente in cassa integrazione. Per altri le cose non furono affatto semplici.
Forse è la prima volta che lascio queste riflessioni online ma in quei primi giorni si respirò anche un senso forte di comunità. Alcuni esempi concreti li trovai nel negozio di alimentari locale che si fece in quattro per rifornire le case di 300 famiglie, nell’aiuto concreto di molti cittadini all’amministrazione comunale per predisporre adeguatamente i mezzi informatici per tenerci in contatto con Prefettura e Regione, e anche nella gente che stranamente usciva di casa, riscopriva le passeggiate in campagna e l’aiuto reciproco.
In quei mesi la provincia riscoprì il valore del “locale”; molti colletti bianchi, me compreso, lavoravano online garantendo utili milionari alle proprie aziende (nonostante tutto, tanti hanno continuato a lavorare in pandemia e pure più del solito) e svelando al mondo una parola chiave che sembrava dover cambiare le sorti del mondo lavorativo a livello globale: smartworking.
Era quindi possibile coniugare la vita da impiegato con la famiglia sfruttando la grande potenza della rete? Era possibile iniziare magari a lavorare prima la mattina evitandosi il traffico della grande città, oppure i mezzi pubblici pieni di gente? Sì, era possibile e non solo: era remunerativo per le aziende. Nel mio caso una conference call via Teams con la Spagna o l’Olanda costava sicuramente meno di un’intera settimana di pernottamenti e viaggi aerei. Si era forse rivelato che il lavoro a cottimo nel 2020 era una follia, che forse una vita più sana e regolare era alla portata di tutti e in cuor mio speravo che il paesino potesse avere una rinascita e già mi immaginavo giovani famiglie e freelancer fuggire dalla città per rifugiarsi in una casa di corte, magari ristrutturata e portare avanti la propria attività in un luogo più tranquillo.
Iniziai subito dopo quei mesi a rompere le scatole affinché il programma BUL (Banda Ultra Larga) fosse implementato anche in paese e i lavori in effetti iniziarono subito dopo. Era fatta, pensavo. Le connessioni intasate del periodo pandemico sarebbero state un ricordo del passato, ci sarebbe stato un nuovo slancio per il paesino e invece…
Invece a distanza di due anni, con il paese fisicamente cablato, in Regione Lombardia qualcuno ancora stenta ad attivare il servizio. Le risorse scarse… Le lungaggini burocratiche… E la provincia è ancora dimenticata. Si riprende a pendolare (perché lo smartworking tutti i giorni no, signora mia!), finisce il sogno, torna il torpore e la nebbia in provincia.
Quello che poteva essere un’attrattiva ovvero un paese di campagna tranquillo dove poter lavorare e vivere con servizi di qualità resta ad oggi nei sogni. O meglio, probabilmente resta sulla scrivania del Dirigente Struttura Reti pubbliche e mobilità sostenibile di Regione Lombardia. Evidentemente i monopattini elettrici che infestano ogni marciapiede di Milano sono una priorità rispetto a dare risposte a 300 famiglie (solo a Bertonico ma chissà quanti paesi lombardi versano nella stessa situazione) che vorrebbero un briciolo di modernità, magari per sfruttare appieno le potenzialità di un pur azzoppato smartworking.
Al di là della questione connettività, che è solo un esempio, è chiaro che tutti hanno spinto per un triste ritorno alla normalità pre-pandemia. Non ci facciamo mancare nulla, dalle tangenziali perennemente intasate e i mezzi pubblici stipati come carri bestiame fino ad arrivare ai menu pranzo con insalate pagate a peso d’oro nelle tavole fredde di City Life.
Tutto è tornato alla normalità, con lo smartworking concesso o meno a seconda dei capricci dell’amministratore delegato di turno con manie di controllo, oppure minato dalle insinuazioni più subdole di un Ministro o dagli stravaganti articoli dei giornali finanziati dai “padroni”, che già ci vedevano come grotteschi mutanti .
Il pendolare di provincia torna a viaggiare a orari allucinanti e in condizioni disumane. Quello purtroppo non fa mai notizia o almeno, non come dovrebbe.
Come cambiare le cose?
Me lo chiedo tanto. Cerco di fare il mio pezzo ma sembra di svuotare il mare con il cucchiaino. Vorrei avere l’ottimismo di Ed:
ci si può ancora lavorare secondo me: non è tardi per far resuscitare cose e attività
Ed (Livello Segreto)
Ok Ed, ci provo. Provo a sforzarmi e pensare qualche soluzione, qualcosa che possa riportare la provincia protagonista senza snaturarne le tradizioni. Qualcosa dal basso che sicuramente aiuterà ma mi permetto alla fine di fare anche qualche considerazione più politica, che possa dare una visione diversa sul futuro.
Anzitutto spendersi per il proprio paese. Aiutare dove si può, anche in cose molto pratiche, dalla preparazione di feste e sagre rionali fino ad aiutare nelle cose più complicate e che riguardano la digitalizzazione. Personalmente da qualche anno ho messo qualche competenza a servizio del Comune di Bertonico, dopo una mia esperienza come consigliere comunale e gestisco le pagine social e Telegram del Comune, cercando di portare informazioni di pubblica utilità in maniera rapida a tutti.
Un’altra cosa che si può fare è dare il proprio contributo a una associazione locale. Come detto, la provincia è costellata di associazioni di promozione sociale sui temi più disparati: circoli artistici, corali, gruppi astrofili, fino ad arrivare alla miriade di pro loco presenti in molti paesi. C’è vita che scorre, ricordate cosa diceva Peder prima? Nonostante tutto, la provincia è un luogo culturalmente vivace ma che può contare su pochissime risorse e quella più importante sono sicuramente le persone. Abitare questi luoghi è uno dei migliori servizi che si possono rendere al territorio.
Un terzo aspetto importante è l’impegno politico. Dove c’è una sede di municipio, lavorare dentro alla macchina politico/amministrativa del territorio credo sia un altro servizio fondamentale perché la politica disegna per una buona parte il futuro della gente che abita questi luoghi. Portare la propria esperienza, il proprio vissuto e le proprie idee all’interno di quella macchina genera linfa vitale per quel futuro.
Io ci ho provato. Questi suggerimenti vengono anche dalla mia esperienza personale ma sono sicuramente decine gli esempi di cose molto concrete a partire “dal basso” che possiamo fare per ridare vita alla provincia e, mi piace sognare, magari accendere i riflettori affinché ci si accorga della sua importanza a livello nazionale e centrale.
In conclusione
Provo odio per me stesso quando scrivo le conclusioni di un pezzo. Un po’ perché la trovo una cosa estremamente formale, un po’ perché mi sembra di essere un po’ un maestrino. Ma va beh, facciamolo (se avete modi migliori sono aperto a suggerimenti). La provincia è uno stato mentale? A oggi sì, in parte lo è. Ma c’è ancora chi ci crede e lavora perché sia un luogo vivo, vitale, aperto e accogliente. Questo nonostante un sistema che vorrebbe tutto centralizzato in enormi centri (la mente corre ad Abissi d’acciaio di Asimov ma non siamo a quel punto, anche se a vedere certi mega-conglomerati urbani cinesi il dubbio mi sfiora). Cambiare le cose è ancora possibile? Non lo so, non ho una risposta a questa domanda. Qualcuno come Ed è ottimista, io faccio parte di quella schiera di “pessimisti impegnati”, un po’ rassegnati allo stato delle cose ma che ancora non si danno per vinti. Certo le occasioni mancate come quella della situazione post-pandemica lasciano l’amaro in bocca e personalmente non mi lasciano ben sperare.
La sezioni commenti è aperta per le vostre riflessioni e i vostri suggerimenti. Li leggerò con piacere, nel caso.