Banlieue

Esplode la protesta delle banlieue in Francia. Cerco di ragionare sull'origine di queste violenze sulle quali forse possiamo fare qualche riflessione anche noi italiani. Non solo nelle grandi città ma anche nei piccoli comuni.

Fa male vedere quello che sta succedendo in Francia. E fa venire rabbia.

Il problema delle banlieue, questi agglomerati urbani spesso caratterizzati da un’elevata presenza di immigrati e da un alto tasso di disoccupazione, in quel paese viene da molto lontano. E’ un problema complesso e sfaccettato e se tocca un paese di lunga immigrazione come la Francia, possiamo imparare sicuramente un paio di cose per evitare che cose simili possano accadere anche da noi.

Ho voluto mettere in fila qualche riflessione molto personale anche se non ho la ricetta perfetta per risolvere un problema così complesso. Spero possiate apprezzarle.

Le proteste in Francia nascondono problemi di integrazione annosi

Non vado nello specifico sull’episodio che ha fatto scatenare le proteste. L’uccisione di un ragazzino da parte della polizia è sempre un episodio sciagurato, che merita approfondimento e un po’ di silenzio mentre si cerca di ricostruirne le dinamiche.

Ad ogni modo, questo omicidio ha incendiato le periferie francesi. Una violenza che riflette una situazione di disagio e frustrazione profonda di chi queste periferie le abita. Ne scrivo in seguito alla notizia che le proteste violente hanno toccato anche Grenoble, città del sud-est della Francia dove ho vissuto con Elena per due anni e che consideravo quasi un modello anche da un punto di vista di integrazione sociale (oltre che ambientale e urbanistico), specie dopo le rivolte de La Villeneuve del 2010. Questi eventi dimostrano che probabilmente non era così nemmeno li.

Le periferie urbane, se lasciate a loro stesse, rischiano sempre di diventare ghetti isolati dal resto della società e terreno fertile per microcriminalità o criminalità organizzata. E’ un rischio sempre maggiore a causa della “centralizzazione” di servizi e lavoro, un problema che molte amministrazioni metropolitane si trovano ad affrontare in questi anni ma che è di difficile risoluzione in un contesto di sviluppo guidato dal privato e che non guarda alle necessità del pubblico.

Cosa succede da noi in Italia?

Le nostre banlieue si chiamano San Siro, Gratosoglio, Corvetto e Giambellino a Milano; Tor Bella Monaca e Tor Sapienza a Roma e infine Scampia e Secondignano a Napoli (lista ovviamente non esaustiva) e oggi non sono certamente periferie “modello” per l’integrazione sociale nel nostro Paese.

Chiedere questa attenzione “dall’alto” nell’attuale contesto politico italiano è utopia pura. In un paese a basso reddito e alta disoccupazione come il nostro, l’immigrato rappresenta il perfetto capro espiatorio dove riversare colpe e frustrazioni, un argomento ben noto alla destra (di Governo) che lo cavalca da vent’anni almeno al fine di ricavare facili consensi elettorali.

Eppure i dati parlano chiaramente di una situazione problematica, di stranieri non integrati, con un maggiore tasso di disoccupazione e una inferiore istruzione (qui il rilevamento Noi Italia 2023 dell’ISTAT) e a me questo sembra il cocktail esplosivo perfetto per futuri problemi simili a quelli francesi.

Gli argomenti della politica anti-immigrazione attecchiscono anche nella provincia profonda, dove personalmente ho messo radici e dove sicuramente l’integrazione da un certo punto di vista è migliore ma ancora certi argomenti fanno fin troppa presa. Nella provincia spesso si fa fatica a crescere e a trovare un senso anche per noi italiani; figuriamoci chi, straniero, è venuto ad abitare nei nostri paesi. Oltretutto anche qui esistono le banlieue; penso ad esempio all’area “GESCAL” di Sant’Angelo Lodigiano (guarda caso una città amministrata dalla destra da decenni), forse emblema locale di menefreghismo politico e sociale nel Lodigiano .

E quindi, come risolviamo la cosa?

Non è un problema di facile risoluzione. Dal mio personale punto di vista sembra uno di quei temi nei quali il cambiamento deve partire “dal basso” ovvero dalla società civile che prima di tutto dovrebbe chiamarsi fuori da certe logiche di emarginazione e sfruttamento; parlo di sfruttamento perché chiaramente l’immigrato è il primo oggetto di contratti irregolari e da fame non solo in agricoltura ma anche in diversi altri ambiti legati alle professioni artigiane.

Più ad alto livello, chiaramente l’integrazione sociale è fondamentale per prevenire l’alienazione e la marginalizzazione. Per questo, politiche che favoriscano l’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e ai servizi sociali, oltre a promuovere il rispetto della diversità e il dialogo interculturale sono la migliore prevenzione a violenze e disordini.

Penso però, che l’integrazione sia un processo a due vie: non riguarda solo l’adattamento degli immigrati alla società ospitante, ma anche la capacità di questa ultima di accogliere e incorporare le differenze. E questo credo sia un punto cruciale anche per noi italiani che non dobbiamo sentirci estranei da questi episodi.

Le attvità di volontari e associazioni sono fondamentali ma serve una forte spinta anche sul lato amministrativo verso una maggiore coesione di tutti i cittadini a prescindere dalla loro condizione sociale o paese di appartenenza. Una spinta che deve essere forte nelle metropoli ma che dovrà per forza interessare anche la provincia e i suoi amministratori.

Una spinta scomoda se contrapposta al mantra dell’immigrato che ruba, uccide e stupra che da anni è stata inculcata nelle menti degli italiani. Scomoda ma necessaria.

La situazione nei piccoli comuni.

Nella piccola Bertonico, dove abito, nel 2022 il 13,80% della popolazione era composta da immigrati. Percentuali simili a quelle dell’intera provincia di Lodi. Solo l’1,6% degli stranieri di Bertonico ha preso la cittadinanza italiana, una percentuale davvero irrisoria e preoccupante se pensiamo alla presenza, spesso silenziosa, di molte persone che non riescono a chiamare nemmeno questo piccolo pezzo di mondo come casa e anche qui probabilmente non si sentono coinvolti e partecipi nella vita quotidiana.

Sono convinto che i piccoli centri come il nostro possano essere un laboratorio positivo di integrazione e cittadinanza. Le nostre dimensioni contenute, difficilmente possono portare a situazioni di disagio tali da scatenare una guerriglia urbana, quindi siamo in una posizione privilegiata per fare qualcosa. Con la forza del volontariato attivo, ad esempio, o della prossimità alle persone. Forse qui è più facile pensare di essere proattivi, di incontrare queste piccole comunità e accompagnarle all’interno della nostra società e della nostra cultura.

Non ho la ricetta perfetta, insomma, ma credo che i piccoli centri possano essere davvero promotori di un cambiamento più grande. Anche questo è partire dal basso. Queste alcune riflessioni che volevo condividere con voi e spero di poter mettere “a terra” concretamente quanto prima. Dal basso.