L’importanza di chiamarsi poser

Perché sui social continuiamo a indossare una maschera che nasconde le nostre fragilità?

Tra alti e bassi il mio periodo di minimalismo digitale continua. Vi confesso che ultimamente sono più bassi che alti, complice una certa necessità di presenza per l’attività politica che devo ancora imbrigliare adeguatamente.

Una sottotraccia di ciò che vedo online, forse complice l’estate, è una certa propensione a ostentare sui social ciò che non si è. Una volta chiamavamo questo atteggiamento con un termine inglese: “essere un poser“. Termine che vedo non va più molto di moda, impegnati come siamo a mostrare una maschera di noi stessi nell’indifferenza generale.

Pu con disagio, mi sono spesso domandato quale fosse la radice di un atteggiamento dal quale anche io talvolta non sono immune. La risposta me la sono data nella necessità intima dell’uomo per la ricerca di approvazione sociale. Da quando l’uomo ha cominciato a lavorare in gruppi, questa necessità di essere “parte” del branco, del clan, della cerchia sociale ha cominciato a manifestarsi in quanto parte dell’istinto di sopravvivenza. Siamo “sicuri”, siamo “felici” solo nella misura in cui ciò che facciamo viene accettato dagli altri. Tant’è che come società stigmatizziamo e puniamo gli atteggiamenti antisociali (dalla timidezza fino al crimine violento, tutto ciò che ci allontana dalla gente viene visto male).

I social network, dal loro avvento nel 2008, hanno rivoluzionato questa ricerca. Il like ha sostituito la relazione fondata sul dialogo, rendendolo per altro sempre più frenetico. L’accettazione passa da una fotografia che mostra di noi il lato più socialmente accettabile, che sia un selfie sorridente o un momento felice. La ricerca di noi stessi passa nell’emulazione dell’altro, senza accorgerci di fatto che i social non mostrano un individuo ma una istantanea ben costruita dello stesso. Un paragone un po’ blasfemo (non ne abbiano i miei amici fisici) può essere trovato nel principio di indeterminazione di Heisenberg, un concetto chiave della meccanica quantistica; non possiamo pretendere di capire la “direzione” di una vita da una istantanea. Figuriamoci trarne conclusione e influenzare la nostra. Ma infondo, ci interessa veramente capire di più la vita delle persone da Instagram? O rischiamo di intossicarci di positività artificiale?

E’ forse il momento di togliere le maschere dei social e tornare alle relazioni autentiche. Oggi non può che essere questo l’antidoto alle endorfine facili di like e sorrisi da selfie. Il mio non vuole essere luddismo digitale perché riconosco i tanti vantaggi che questi nuovi media hanno portato.

Forse è una questione di tempo dedicato. Forse di forza di volontà. Forse la necessità di riempire la nostra vita con cose più materiali e conversazioni più autentiche.

Alla fine si torna sempre sui soliti concetti e ripeto, anche io ci casco. Tenti di rompere la catena, di tornare a qualcosa di più concreto e poi finisci sempre per guardare l’erba del vicino in un circolo sempre più difficile da spezzare.

Ma forse, concludendo, è come la goccia che scava la roccia. Un po’ di consapevolezza e riflessione ogni giorno mi aiuterà, ci aiuterà, a utilizzare questi mezzi con maggiore consapevolezza.